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LAVORO: I CHIARIMENTI DELLA CASSAZIONE SULLA TEMPESTIVITÀ DELL’AZIONE DISCIPLINARE

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La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9313 del 7 aprile 2021, si è pronunciata in materia di diritto del lavoro, affermando che, qualora il lavoratore sia sottoposto a procedimento penale, per valutare la tempestività dell’azione disciplinare esperita dalla P.A., occorre individuare il momento in cui quest’ultima sia venuta a conoscenza, oltre che del contenuto dell’avviso di garanzia, anche degli elementi che costituiscono l’illecito. La vicenda traeva origine dalla conferma, da parte della Corte d’Appello, della decisione del giudice di prime cure con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento irrogato dall’INPS ad un dipendente per avere l’ente pubblico violato il principio di tempestività ed immediatezza della contestazione disciplinare. Secondo il giudice di merito, non poteva essere condivisa la tesi difensiva dell'INPS nella parte in cui aveva indicato come legittima l'attesa dell'esercizio dell'azione penale nei confronti del lavoratore per l'instaurazione del procedimento disciplinare, dal momento che l'avviso di garanzia emesso dalla Procura era già caratterizzato da un contenuto affatto puntuale in ordine all'illecito addebitato al lavoratore, al nominativo della persona offesa ed alle circostanze spazio-temporali in cui il fatto di reato sarebbe stato commesso dal dipendente, così da consentire al datore di lavoro il compimento dei necessari approfondimenti istruttori e di giungere ad autonome valutazioni in sede disciplinare. A questo punto, il caso approdava in Cassazione, davanti alla quale l’INPS sosteneva in particolare che la piena conoscenza del fatto addebitato al dipendente non potesse essere dedotta da notizie indiziarie contenute nell'informazione di garanzia. Il Tribunale Supremo, accogliendo il ricorso, stabiliva che ai fini di una contestazione disciplinare occorre “una notizia 'circostanziata' dell'illecito ovvero una conoscenza certa, da parte dei titolari dell'azione disciplinare, di tutti gli elementi costitutivi dello stesso. È stato, infatti, ritenuto che, in tema di procedimento disciplinare, ai fini della decorrenza del termine per la contestazione dell'addebito, assume rilievo esclusivamente il momento in cui l'ufficio competente abbia acquisito una 'notizia di infrazione' di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l'avvio al procedimento mediante la contestazione, la quale può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere”. Per i giudici di piazza Cavour, queste caratteristiche “non possono essere rinvenute esclusivamente nel contenuto, per quanto puntuale, di una informazione di garanzia che, a termini dell'art. 369 cod. proc. pen., è atto che viene inviato dal pubblico ministero all'indagato quando deve essere compiuta una qualche attività cui il difensore ha diritto di assistere”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Se il lavoratore impugna il licenziamento ha l’onere di dimostrarne l’esistenza

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Il lavoratore che agisce in giudizio per sentire dichiarata l'illegittimità di un licenziamento, ha l'onere di provare l'esistenza del licenziamento stesso. A tal fine “non può ritenersi sufficiente la prova della cessazione di fatto delle prestazioni lavorative”. Ciò è quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 9108 dell’1 aprile 2021. Dunque, il lavoratore il quale deduca che il rapporto di lavoro sia cessato a causa del licenziamento intimatogli dal datore di lavoro e impugni il licenziamento, deve provare il licenziamento stesso, quale fatto costitutivo dei diritti fatti valere, laddove la controdeduzione del datore di lavoro relativa alle rassegnate dimissioni, assume il valore di un'eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull'eccipiente ai sensi dell'art. 2697 comma 2 c.c. Il giudice di merito, sulla base delle evidenze istruttorie, deve indagare il comportamento delle parti da cui risulti l'intento consapevole di voler porre fine al rapporto. Questa indagine “deve essere particolarmente accurata, tenendo conto della circostanza che l'estromissione dal rapporto non può ricondursi tout court alla constatazione della cessazione di fatto dell'attuazione del rapporto, giacché si introdurrebbe in tal modo, in assenza di una specifica previsione di legge, una sorta di esonero del lavoratore dall'onere della prova riguardo alla effettiva esistenza di un licenziamento”. Come è noto, il licenziamento, dal punto di vista strutturale, è atto unilaterale con il quale il datore di lavoro dichiara al lavoratore la volontà di estinguere il rapporto di lavoro, esercitando il potere di recesso. Chi impugna un licenziamento adducendo che lo stesso è avvenuto senza il rispetto della forma prescritta, ha l'onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda, rappresentato dalla manifestazione di tale volontà datoriale, seppur realizzata mediante comportamenti concludenti. Questa identificazione del fatto costitutivo della domanda del lavoratore prescinde dalle difese del datore di lavoro, anche per il fatto che questi può risultare contumace, ed il conseguente onere probatorio è ripartito sulla base del canone dettato dall'art. 2697, comma 1, c.c., secondo il quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. In definitiva, secondo il Tribunale Supremo, “il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


OBBLIGO DI REPECHAGE: IN COSA CONSISTE?

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Il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, deve prendere in considerazione tutte le possibilità di ricollocazione all’interno dell’azienda del lavoratore in esubero o che sia divenuto inidoneo alle mansioni assegnategli. È questo il cosiddetto obbligo di repechage (ripescaggio) che vige in capo al datore. Dunque, il repechage è strettamente legato al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, consiste nel licenziamento dovuto a “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Difatti, nell’esercizio della sua attività d’impresa, il datore di lavoro, spinto da necessità economiche o di riorganizzazione (ad esempio, sopravvenuta inidoneità alla mansione, esternalizzazione di una certa attività, ecc.) può decidere di sopprimere una posizione lavorativa. Qualora il lavoratore contesti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve provare di aver tentato il repechage, cioè dovrà dimostrare:
• che, al momento del licenziamento, i posti di lavoro residui erano occupati stabilmente e che, dopo il licenziamento, per un lungo periodo di tempo, non ha effettuato alcuna nuova assunzione a tempo indeterminato in qualifica analoga a quella del dipendente licenziato; • che il dipendente non possedeva la capacità professionale richiesta per occupare una diversa posizione libera in azienda; • che, al momento del licenziamento, non erano disponibili posizioni analoghe a quella soppressa e che il lavoratore non ha dato il suo consenso alla prospettata possibilità di reimpiego in mansioni inferiori, rientranti nel suo bagaglio professionale. Nell’ipotesi di licenziamento di dirigenti la verifica del repechage non è invece necessaria. La mancata prova dell'impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore (cd. repêchage), gravante sul datore di lavoro, determina l'illegittimità del licenziamento, ma esula dal fatto posto a fondamento del licenziamento. Ne consegue l'applicazione del regime risarcitorio di cui all'art. 18, comma 7, St. lav., come novellato dalla L. n. 92/2012 (Trib. Milano, 28 novembre 2012). Quando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di un personale omogeneo e fungibile, non soccorre più il normale criterio costituito dalla "posizione lavorativa" da sopprimere in quanto non più necessaria e, tantomeno, soccorre il criterio della impossibilità di "repêchage", in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono quindi potenzialmente licenziabili: si tratta di un caso, in definitiva, in cui il nesso di causalità si configura non tra il motivo e la soppressione di un determinato posto di lavoro, ma tra il motivo e la soppressione dell'uno o dell'altro, indifferentemente, tra più posti di lavoro (App. Venezia, 31 ottobre 2012). In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (e soggettivo), il datore di lavoro deve dare al lavoratore il preavviso o, in mancanza, deve corrispondere la relativa indennità sostitutiva, equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Durante il periodo di preavviso continuano ad applicarsi le norme di legge e di contratto concernenti il rapporto di lavoro, proseguono gli effetti del contratto e persistono i doveri che incombono sul lavoratore nell'esecuzione del rapporto di lavoro.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE E NOZIONE DI GIUSTIFICATEZZA

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Secondo l’art. 1 del CCNL per i Dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi “sono Dirigenti i prestatori di lavoro per i quali sussistano le condizioni di subordinazione di cui all'art. 2094 del cod. civ. e che ricoprono nell'azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa”. Dunque, il dirigente è quel soggetto che, all’interno dell’azienda, attraverso le proprie competenze professionali, mette in atto le direttive del datore di lavoro, organizzando l’attività e vigilando sul corretto svolgimento di quest’ultima. In altre parole, il dirigente è una sorta di “alter ego” dell’imprenditore. Poiché collocato in posizione di superiorità gerarchica su tutto o gran parte del personale dipendente, il dirigente è legato al datore di lavoro da un rapporto fortemente fiduciario che, tuttavia, rischia spesso di essere leso per comportamenti o fatti che determinano il suo licenziamento. Quando si parla di licenziamento del dirigente, particolare importanza riveste la nozione di giustificatezza. Tale nozione è stata infatti introdotta negli anni Settanta nei contratti collettivi di lavoro applicabili ai dirigenti, a tutela del licenziamento di questi ultimi, che risulta essere molto più grave rispetto a quello di un dipendente. La nozione di giustificatezza è completamente autonoma e svincolata da quella di giusta causa o di giustificato motivo di licenziamento. Il giustificato motivo di licenziamento si distingue in soggettivo e oggettivo. Mentre il primo è relativo ad un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, il secondo è legato a ragioni inerenti all'attività produttiva ed al regolare funzionamento di essa. L’intimazione di licenziamento per giusta causa avviene invece quando è stato accertato che la condotta ha avuto un carattere lesivo tale non soltanto da giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro, ma anche da non consentire al licenziato la prosecuzione provvisoria per il tempo necessario a trovare una nuova occupazione. Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la ricorrenza della giustificatezza dell'atto risolutivo va correlata alla presenza di validi motivi di cessazione del rapporto lavorativo, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede, sicché non è giustificato il licenziamento per ragioni meramente pretestuose, al limite della discriminazione, o anche del tutto irrispettoso delle norme procedimentali che assicurano la correttezza dell'esercizio del diritto relativo da parte dell’imprenditore. Del resto, la nozione di giustificatezza è ravvisabile ove sussista l’esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio, della soppressione della figura dirigenziale in attuazione di un riassetto societario e anche ove non emerga, in base ad elementi oggettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione. In tali casi, il giudice deve limitarsi al controllo sull’effettività delle scelte imprenditoriali poste a base del licenziamento, dal momento che non può sindacare il merito di tali scelte, garantite dal precetto di cui all’art. 41 Cost. Inoltre, ai fini della "giustificatezza" del licenziamento del dirigente, è rilevante qualunque motivo che lo sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, considerato che non occorre un’analitica verifica di specifiche condizioni, essendo invece sufficiente una valutazione globale, che escluda l'arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza di poteri attribuiti al dirigente. Un caso particolarmente significativo di ritenuta giustificatezza del licenziamento è quello relativo al manager che, attraverso comportamenti conflittuali, ha creato un contrasto insanabile con la società. In particolare, ciò avveniva mediante: l’invio al suo diretto superiore di numerose comunicazioni scritte, caratterizzate da atteggiamenti rigidi, volti a porre la direzione nella necessità di scegliere tra l’uno o l’altro; le lamentele presso la direzione, false nei presupposti di fatto; i tentativi di seminare disaccordo tra gli altri dirigenti e di sobillare le impiegate; l’invio al presidente di numerose lettere, di contenuto a tratti “delirante” (Cass. 12 ottobre 1996, n. 8964).

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


IL TRASFERIMENTO DEL RAMO DI AZIENDA SECONDO LA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA

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Con la sentenza n. 7364 del 16 marzo 2021 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sulla nozione di trasferimento d’azienda, soffermandosi soprattutto su quello che è il pensiero e la disciplina della Corte di Giustizia Europea in materia. Gli Ermellini, rispolverando consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, hanno affermato che, ai fini del trasferimento di ramo d'azienda di cui all'art. 2112 c.c., è da considerarsi elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e, dunque, di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni rilevanti da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione. Dunque, “la cessione di ramo d'azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi”. Il significato di trasferimento di ramo d'azienda appena descritto è perfettamente coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria”. La Corte dell'Unione ribadisce costantemente che, al fine di determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni per l'applicabilità della direttiva in materia di trasferimento d'impresa, è necessario “prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo d'impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un'eventuale sospensione di tali attività”, ma “questi elementi, tuttavia, sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente”. I Giudici di legittimità hanno inoltre sottolineato che la ratio della disciplina comunitaria è volta ad assicurare la continuità dei rapporti di lavoro che esistono nell'ambito di un'attività economica indipendentemente dal cambiamento del proprietario e, dunque, ha lo scopo di proteggere i lavoratori nella situazione in cui siffatto cambiamento abbia luogo; essa, infatti, riguarda il “ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti”, per cui non è direttamente incidente nei casi in cui non si controverta del “mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti" presso la cessionaria, in difetto dei presupposti previsti dal diritto dell'Unione”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'